“(…) É una poetica della femminilità, del gioco pensoso, dell’infanzia e della maternità, dell’attesa e dell’abbraccio, tutti oggetti della meditazione e della creazione artistica che risultano di una limpidezza e di una semplicità commoventi (…)”

Alessandro Giovanardi

Rosita Copioli

 

Poiché lascia affiorare le forme che la mente ha vagliato dai suoi geni di luogo e di stirpe e di elezione  Angela Micheli lascia emergere il fiore di ciò che conta, le tracce di un percorso che ognuno di noi porta sepolto in sé … (…)  Rosita Copioli 

 

Ho conosciuto da poco Angela Micheli, la cui forza plastica si è mostrata luminosamente nei due ultimi decenni. Incontrandola, ho cercato di trasformarmi tutta in un occhio e in un orecchio: le vie più docili della mente che vuole capire. L'ascoltavo e guardavo: lei illustrava i tempi, i sensi, le ragioni che avevano guidato le sue mani, dentro quelle bambine-nipoti, quelle donne-figlie, quegli esseri animali, quelle madri-alba e madri-tramonto che sono lei-stessa. Parlava piana, e tante cose diceva che gli artisti devono dire, a sé e di sé; perché solo loro formulano, anche nella parola, la cifra e il mormorio, il simbolo e la pena, la gioia e il dispendio della loro sorte. Lei dunque rievocava le occasioni famigliari, le pose della nipotina, dalle quali erano nate le sue invenzioni: soprattutto le invenzioni magnifiche delle poltrone-trono, delle nicchie-nido dove le bambine anticipano il gioco tenero e crudele della domina e della madre. Poi insisteva nell'additarmi le schiene delle sue donne amorose. Passava le belle mani sui muscoli, sui tendini allungati e addensati in abbracci circolari, di rami o di radici serrate in un vaso: vene quasi di bambino nell'animo, o venature traslucide in un uovo covato. Le schiene albero sopportano, prolungate in braccia ramose - in romos bra-chiacrescunt, come alla Dafne di Ovidio si allungano in gambe che sostengono, avviluppano, stringono, sgusciate dalla scorza, levigate da mani instancabili. Di bronzo o dì ceramica, queste sono donne-olivo, oleose, che trattengono il pigmento caldo della natura e la forza della terra.  Una delle prime sue donne, affusolata, nera, carbonata, aveva invece le membra tagliuzzate fino a farne la pelle di squame. Che cosa era questa epidermide? Una pelle corazza? Una pelle tagliata e dipinta in nero, come se questo nero precedesse i colori? Una pelle tatuata con losanghe e segni incrociati, come se un tessuto scozzese fosse stato impresso nella carne?  In seguito l'artista, spiegava, aveva lasciato solo alla schiena il privilegio del taglio, delle unghiate. Ogni nervatura della schiena, staffilata dal tempo, reca il sigillo di Eva, strappata dalla costola di Adamo. Oggi, quel taglio rituale sembra concentrarsi nel tratto del pennello, che lei usa come un coltello. Mentre mi mostrava le terrecotte, i bronzi dipinti, i ritratti, i disegni, io pensavo alla carne animale che sentivo muoversi dentro di loro. Non c'era soltanto carne di donna, sebbene lei con semplice esattezza ne rappresenti la più intima verità dei gesti e dei sentimenti, per i quali va diritta verso l'essenza pura del loro essere. Forse era di donna solo nel senso più arcaico, dove ci immaginiamo non esistesse leziosità, ma significato, forma, bellezza congiunte. Come nelle Madri del Mattino, che le grandi statue di tufo biondo o grigio di Cappa rendono terribili, con una fedeltà che abbacina in queste sue madri si prolungava lo stampo di ogni creatura o cosa, organica e inorganica, animale, vegetale, e minerale, che possiamo chiamare madre biologicamente e metaforicamente. Tuttavia in questo archetipo ritornante, lei era lei: Angela Micheli; era lei forse anche a causa di quel suo pennello-coltello che usa oggi per disegnare, corrispondente allo stilo che incide le carni, allo stilo che taglia e sfida la resistenza della materia dura Se è legittimo parlare di affinità lontane, a me sembra che quei reticoli di fili che hanno tagliato come lame la materia, intrecciandosi in trame di quadri e losanghe - continuerei a chiamarle scozzesi -, appartengano al ricordo di tessuti di pelle o di stoffe antichissimi, come i manti villanoviani di Verucchio, che forse la memoria genetica trasmette nel valore dell'origine: carne incisa e dipinta ritualmente, i cui disegni si trasferiscono sulle vesti. Poiché lascia affiorare le forme che la mente ha vagliato dai suoi geni di luogo e di stirpe e di elezione  Angela Micheli lascia emergere il fiore di ciò che conta, le tracce di un percorso che ognuno di noi porta sepolto in sé: gli animali che conteniamo: la zampa, la chela, il muso, la corazza, la zanna, insieme con le altre forme delle scorze e dei rami vegetali, di cui siamo fatti. Guardando più attentamente in questo affiorare di forme, scopriamo che esse portano a quella prima percezione della vita, che sboccia in ciò che le culture celtiche chiamano faery. In realtà è il mondo dell'immaginazione biologica e vivente, che si manifesta attraverso ciò che un tempo veniva considerato il mondo della visione. Nella dimensione sferica vive quella animazione metafisica e cangiante degli stati crepuscolari, che trae luce e forma da essenze demoniche di varia natura. Da un lato è qualcosa di metafisico; dall'altro appartiene alla natura viva che sta tra il vegetale, l'animale, l'umano, e Dio, ma come in una percezione di inizi. Annamaria Ortese fu tra i pochi in Italia, che ne adottò la sostanza,rendendo protagoniste dei suoi ultimi romanzi alcune creature animali, metamorfiche e sacrificali, che incarnano la fiammella divina in un mondo ottuso. Nella Micheli la dimensione sferica porta a un nuovo crepuscolo le creature sepolte: gli animali che vi sono occultati; i visi dei bimbi che vi erano dimenticati; i nostri abbracci perduti; le nostre schiene sopportanti che vi si nascondono, in un intreccio palese e crittografato.

Chi guarda le poltrone dove le bambine posano, avverte una grazia dove sembra dissolta l'ansia raccolta nelle schiene incise. Nel vimini lieve o sul velluto dove le bambine attendono, giace celato e alleggerito, l'intreccio dei corpi nidificati e accoglienti delle madri (e dell'Adamo remoto). Queste poltrone così domestiche, sono i troni ancestrali che ereditiamo, e che forse da Verucchio, conoscendoli con gli occhi della mente, la Micheli aveva adottato, ancora prima di vederne le spoglie, come se fossero l'appoggio più naturale della donna.

 

Rosita Copioli – poetessa, saggista, studiosa e critica.