“(…) É una poetica della femminilità, del gioco pensoso, dell’infanzia e della maternità, dell’attesa e dell’abbraccio, tutti oggetti della meditazione e della creazione artistica che risultano di una limpidezza e di una semplicità commoventi (…)”

Alessandro Giovanardi

Alessandro Giovanardi

 

(…) é una poetica della femminilità, del gioco pensoso, dell’infanzia e della maternità, dell’attesa e dell’abbraccio, tutti oggetti della meditazione e della creazione artistica che risultano di una limpidezza e di una semplicità commoventi (…) Alessandro Giovanardi 

 

Gli occhi chiusi o addirittura inesistenti, assorbiti, anzi, divorati, nella contemplazione del cuore, i volti arcaici che provengono dal Mediterraneo antico e che rimandano all’Egitto, all’Etiopia, all’Eritrea, le teste decise ma col collo incassato nelle spalle quale segno di timorosa riservatezza, i piedi ampi e nodosi che si aggrappano al suolo come radici, le mani forti ed ampie che accarezzano e proteggono ogni persona o cosa cara: ogni opera dell’Autrice è una piccola polifonia domestica, un dialogo privato o, meglio, un’unione d’opposti fra espressività e negazione della parola, fra energica volontà ed estrema delicatezza nell’essere presenti. 

Questa scultura nasce certo da un rito, il quale, tuttavia, si celebra nel nascondiglio di uno studio o di una camera. Per rubare un’invidiabile espressione del poeta Henry Vaughan, l’arte della Micheli vive ancora in un’età dei misteri: «La vigilano gli angeli e vi giocano, / Gli angeli che gli sconci uomini scacciano». È vero che per la scultrice si deve parlare innanzitutto di un discorso piano e mai forzatamente concettuale. 

La sua, infatti, è una poetica della femminilità e del gioco pensoso, dell’infanzia e della maternità, dell’attesa e dell’abbraccio: tutti oggetti della meditazione e della creazione artistica che, usciti dalla sua mente e dalle sue mani, risultano di una limpidezza e di una semplicità commoventi. Tuttavia, questa chiara terrestrità, questa immediata comprensibilità del corpo e della sua postura, questa affabilità nel plasmare la terra e nel fondere i metalli, non sono, appunto, qualità prive di segreti e di stupori. 

Vi si scorgono, in vero, profondità formali e spirituali, che dovremmo descrivere con un termine, insieme estetico e teologico: grazia. Non vi è, però, in Angela una ricerca del sacro esplicita e voluta e i suoi pensieri e le sue dita incespicano in molti dubbi e perplessità quando deve affrontare, su commissione, un soggetto volutamente religioso, un’immagine devota. 

Eppure i suoi angeli infanti, le sue madonne terrene, le sue imago pietatis sentite e dolorose, ci emozionano fortemente; e tutto ciò perché nessuno di essi si separa da quella tenera carnalità che unisce tutta intera la sua felice produzione. Allora cosa giustifica il soggiogante sentimento di dono e di gratuità, d’immediata illuminazione, di fiaba mistica delle sue composizioni? 

Si tratta probabilmente di una spiritualità inconsapevolmente trasmessa attraverso i gesti e le abitudini. Non mi pare inutile parlare della tradizione artigianale della sua terra d’origine a cui ha fatto recente ritorno: la Romagna, insieme viscerale e devota, del mondo verucchiese in cui è nata e che sente, ancora oggi che risiede a Rimini, come qualcosa di unito alle fibre più intime della sua anima. 

Vi è, inoltre, nel modus operandi di Angela qualcosa di monastico, ma acclimatato a quell’esperienza della riflessione solitaria femminile che comincia con le grandi ascete laiche dell’Ottocento e del Novecento: Emily Dickinson, Virginia Woolf, Marina Cvetaeva, Simone Weil, Cristina Campo. 

Molto si sa di queste immense narratrici e poetesse, filosofe e teologhe; di queste grandi evocatrici della parola efficace e del pensiero perfetto; molto meno di chi ha percorso strade affini nel mondo della pittura, del disegno o della scultura, pur avendo con radici altrettanto antiche; si pensi solo all’infelice destino di Camille Claudel sorella del poeta Paul, discepola di Rodin e talentuosa scultrice. 

Anche il lavoro della Micheli, come dimostra la poetica dei corpi da lei plasmati, così duttili, timidi ed allo stesso tempo caparbi, è la conquista di «una stanza tutta per sé», di una dimensione di libertà e lontananza che la difende dalla volgarità dei tempi: un cerchio magico di fiabe del focolare che ha la potenza del sortilegio. 

Da qui promana quel distacco senz’affettazione e senz’arroganza delle sue bambine e delle sue fanciulle estive, chiuse nel sonno e nel gioco e a volte raffigurate come i santi stiliti del deserto, in cima a una colonna che rende la loro fragilità intemerata e venerabile.

 

... Per rubare un invidiabile espressione del poeta Henry Vaughan, l'arte della MICHELI vive ancora in un età dei misteri: "La vigilano gli angeli e vi giocano … gli angeli che gli sconci uomini scacciano". La sua, infatti, è una poetica della femminilità e del gioco pensoso,dell'infanzia e della maternità, dell'attesa e dell'abbraccio: tutti oggetti della meditazione e della creazione artistica che, usciti dalla sua mente e dalle sue mani, risultano di una limpidezza e di una semplicità commoventi.

 

Alessandro Giovanardi – storico e critico dell’arte